Piazza di Monte d'Oro (R. IV – Campo Marzio) (limitata a nord da via Tomacelli e a sud da via dell'Arancio)
“Questi luoghi, sotto il colle degli orti (Pincio), si cominciarono ad habitare e riempire nelle concavità al tempo di Giulio III (Giovanni Maria Ciocchi del Monte - 1550-1555), così seguirono sin dove ora è tutto habitato, e dall'ortaglia, che vi era, fu detto il luogo “ortaccio”; e poi con due altri nomi, cioè “condopula” (in condocere copula), e dall’insegna di una osteria, che si esercitava nella casa degli eredi del Causeo [1], fu chiamato del Monte d'Oro”(Martinelli - “Roma Ricercata” - 1678).
“Ortaccio” era il reclaustro destinato alle meretrici dette “de lume” o “de candela” ed a quelle “di minor sorte”[2].
Fu Pio V (Antonio Michele Ghislieri - 1566-1572) che impose al Comune, nel 1566, di destinare una località per rinchiudervi le cortigiane. Come in ghetto, questa località [che occupava lo spazio fra la chiesa dei Lombardi (ora San Carlo al Corso) e Ripetta, Ripa del Tevere, chiesa di S. Girolamo degli Schiavoni e ospedale, via degli Schiavoni, piazza dell’Ortaccio, via Tomacelli] ”fu recintata con mura e due porte davano accesso al recinto. Le porte si chiudevano la sera e nessuno estraneo poteva entrare ed uscire"[3].
“Relegavit (Pius V) in locum destinatum propre Mausoleum, a quo neque interdiu neque noctu exire possent, nec vagarentur in Urbe”.
Nonostante la protesta degli abitanti di Campo Marzio e quella della Compagnia degli Schiavoni [3bis] costretta a far allontanare “le donne oneste della loro Nazione” perché “per esser la casa assegnata a uso delle povere donne della nazione nostra, in via detta Schiavonia, dove al presente è deputato il serraglio delle pubbliche meretrici, non è conveniente, che le dette donne honeste schiavone, habitino in loco dishonesto”, eppure il reclaustro fu effettuato [4].
Così una cortigiana, Isabella de Luna, venne condannata a 50 staffilate e, come si rileva da una relazione, tutta Roma accorse per vedere. La meretrice “fu da un gagliardo sergente elevata sopra le spalle e nella via pubblica il boia le alzò i panni sul corpo e con un duro staffile cominciò fieramente a percuoterla sulle natiche... Ella, nonostante sì fiere e vergognose battiture, come le furono calate abbasso le vestimenta e dal sergente fu lasciata in libertà, fece come il cane mastino che, uscendo fuori dal covile della paglia, tutto si scuote e se ne va. Fece ella il medesimo e, ancora che le natiche le dolessero, nondimeno se ne andava verso casa, senza mostrare in viso un minimo segno di vergogna, come se da nozze se ne tornasse” (Bandello-Novelle-XVI,1853).
Oltre lo staffile si usava qualche volta l’ortica od altro strumento come quando per esempio un’altra donna uscita di casa in ora proibita “fu trovata fuori del vicinato a ripigliarsi una padella dall'amica. Con quella istessa padella, in prigione, le fu dato sulle natiche alquante botte”.
Se il boia non faceva interamente il proprio dovere [5], e risparmiava, in parte, le vittime, era passibile della stessa pena. In un avviso del 15 aprile 1592 è detto: “Esecuzione di giustizia fatta qua di moglie e marito condotti sopra un carro che si frustavano l'un l'altro. Et, in Ponte, poi fu dato un taglio nel naso ed orecchio alla donna e il marito condannato poi in galera perpetua, perché consentiva agli adulteri della moglie, al quale marito furono anco poste due gran corna in testa con li sonagli in cima”.
Ma 10 giorni dopo [6]: “25 aprile 1592 - è stato frustato il boia per Roma, per non haver tagliato bene il naso et orecchi alla donna scritta...”.
Ed è certo per garantirsi da questo infortunio che si legge in un altro avviso di Roma che una tale Nina da Prato “arrestata, fu condotta a Ponte Sant'Angelo e alla presenza di 3000 spettatori fustigata, dopodiché il boia prese la colpevole sul dorso, perché da tutti si potesse constatare che la giustizia era stata coscienziosamente fatta”.
Le prostitute pagavano una tassa [7] basata sul valore locativo; secondo un decreto della Reverendissima Camera Apostolica del 26 giugno 1549 “tassa di un giulio, uno per scudo, sopra la pigione che pagano le cortigiane di Roma, pubblicata per la riparazione del Ponte di Santa Maria...”.
Di queste tasse i papi attribuivano il provento ad opere di beneficenza o ad opere pubbliche.
Leone X sistemò, col ricavato, la via di Ripetta e così nel 1564-66 servì per la ricostruzione del tetto di S. Giovanni Laterano.
Abolita la tassa da Gregorio XIII (Ugo Boncompagni - 1572-1585), Benedetto XIV (Prospero Lorenzo Lambertini - 1740-1758) la ripristinò, in misura minore, al rimborso spese del Bargello e degli sbirri che dovevano sorvegliare il loro quartiere.
Alla morte di Pio V (Antonio Michele Ghislieri - 1566-1572), le disposizioni vennero sempre meno osservate, nonostante i regolamenti fatti da Gregorio XIII, Sisto V (Felice Peretti - 1585-1590) e Clemente VIII (Ippolito Aldobrandini - 1592-1605). Le cortigiane si sparsero per Roma [8], pur restando ad esistere l’Ortaccio [9] che fu soppresso solo nella seconda metà del XVIII secolo [10].
Per il prolungamento di via Tomacelli, da Ripetta al Largo Goldoni (già Croce della Trinità), una parte di Piazza Monte d'Oro fu incorporata nella detta strada
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[1] « Causeus » fu chiamato « Michelangelo de la Chausse » archeologo parigino (morto a Roma) del secolo XVII; sua opera principale “Museum romanum”.
[2] ) Le cortigiane erano di 3 classi: la prima “honeste o miglior sorte”: la seconda “di minor sorte”; la terza “de lume” o “de candela” (Quelle che i Romani chiamavano “meretrices diobolares” - da 2 dinari - anche inferiori alle “scorta”). La quale ultima classe, non raggiungendo il minimo imponibile, non veniva tassata ma tartassata: dovevano portare un mantello distintivo (XV sec.), proibito vestire da uomo e partecipare a funzioni religiose solenni, a processioni, condurre alberghi, alloggiarvi o frequentarli, coabitare con parenti, dare o assistere a rappresentazioni teatrali, girar di notte, tenere armi e ricevere armati, fare bagni nelle stufe apposite, andare in barca sul Tevere, abitare presso chiese o luoghi pii, andare in cocchio o carrozza ecc. ecc. Quelle poi protette da Gentiluomini, Principi, Cavalieri, Addetti diplomatici erano dette “Curiali” perché dipendevano dalla Curia (Vicariato) e non dal Bargello. Circa la mania di vestirsi da uomo si legge: “1731 – Essendo costume della principessa di Carbognano (Sciarra), allorché è in villeggiatura, andare in abito da uomo e, trattenendosi ora in Albano, il cardinale Pico della Mirandola che ora è Vescovo, avea a tenere degli antichi canoni, vietato che in tale abito fosse ammessa alla chiesa e di più gliene è venuto precetto dalla Segreteria di Stato” (Archivi Capitolini).
[3] ) Dal sabato di passione, per tutta la settimana santa e fino alla domenica in Albis, a nessuno estraneo era permesso l’ingresso, e alla meretrice l’uscita dall’Ortaccio, e così per la notte di Natale. (Archivio di Stato, bandi vol.23).
[3bis] Schiavoni furono detti comprensivamente Dalmati e Illirici, che, sfuggiti ai turchi, al principio del XV secolo, si erano rifugiati qui in Roma, stabilendosi in Borgo. Non essendoci però la possibilità di costruirvi un ospizio, Niccolò V, con una bolla del 21 aprile 1453, dette loro "in ecclesia diruta et discoperta Sancte Marine de Campo Marzio” la possibilità di costruire la chiesa e ospizio sotto l'invocazione di San Girolamo (vedi via degli Schiavoni - Campo Marzio).
[4] ) Sotto Clemente VIII (nel 1595) si decise che “ se la contrada dell’Ortaccio e quella di Padella (Regola) non fussero capaci di ricevere le dishoneste, si amplierà per li lochi vicini, purché non siano presso chiese, monasteri et case di illustri". Ebbero così “ tutto il rione di Padella, Ortaccio et Trinità de’ Monti, cioè dall'arco di Portogallo fino alla piazza del Popolo riservate quattro strade principali di essa contrada”.
[5] ) Il suo lavoro per la frustatura era pagato con 1 giulio e cinque bajocchi.
[6] ) Questi spettacoli si ripetettero anche nel secolo seguente: “ 12 maggio 1696 - questa mattina sono state frustate cinque ruffiane con tutta Roma dietro, né sono valse le doblé offerte per liberare la famosa Ghita Cappellara, bensì è stata restituita alla chiesa, dove fu presa Nina Bracco, ma poi i à havuto l'esilio”. (Archivio Segreteria Vaticana, Fondo Borghese Serie II n°446).
[7] ) L’imposta sul meretricio si fa risalire a Solone (640-558 a.Ch.) e la applicarono anche i Romani cui, secondo Cornelio Agrippa, rendeva una somma rilevantissima.
[8] ) Sotto Innocenzo XII (1691-1700) « perché molte cortigiane, uscite dal luogo erano andate a stantiare in Borgo e in Trastevere, sono state questa settimana forzate a uscire e ritornare ai medesimi luoghi assegnateli” 5 marzo 1697.
[9] ) Pio V (1566-1572) aveva avuto l’idea di impiantare “l’Hortaccia Lupanaria” fra i Trasteverini, ma questi protestarono che nell’udienza “si levò un gentilhuomo e disse fra le altre cose che prima brugierebbero le lor case, che comportar che vi habitassero meretrici”.
[10] ) Infatti nel 1658 il cardinale Vicario pubblicava ancora: “Editto col quale si vieta alle meretrici di frequentare alberghi e osterie, di stare alle finestre, di andare alle stazioni, di girare in cocchio, e di indossare vestiti da uomo o “manti” ovvero spumiglie, né habito di monache”. (Biblioteca Casanatense, tomo 8, pag.409).
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